Alfio Castelli nasce a Senigallia nel 1917. Dopo la morte del padre si iscrive alla Scuola di Arti e Mestieri di Fano e, grazie ad alcune borse di studio, prosegue la propria formazione presso l’Istituto di Belle Arti di Firenze e l’Accademia di Belle Arti di Roma. Espone per la prima volta ai Prelittorali nel 1938, quindi partecipa alla III Quadriennale di Roma e nel 1940, con Ritratto di Giulietto, è il più giovane espositore italiano della XXII Biennale di Venezia. Le opere che l’artista realizza in questo periodo, soprattutto ritratti di infanti e ragazzi, rimandano ad un naturalismo di marca ottocentesca, dove a predominare sono la cura ossessiva del particolare e l’aspetto narrativo.
Nel 1943 si trasferisce a Senigallia ed aderisce al movimento partigiano. Nelle opere realizzate in questo periodo, come ad esempio nel gruppo in cera Giochi di bimbi, pur partendo dal dato naturalistico, Castelli comincia ad intendere la scultura come articolazioni ed incastro di piani e volumi nello spazio. Rientrato a Roma, partecipa alla prima mostra organizzata dalla Libera Associazione Arti Figurative ed espone per la prima volta, presso la Galleria La Finestra, la serie dei Pretini, caratterizzata da una rappresentazione conchiusa di volumi, con i particolari che si annullano nella totalità dell’immagine. Alle stesse caratteristiche risponde la serie delle Donnine, nudi femminili singoli o in coppia atteggiati in pose melense, presentata, insieme ai Pretini e ad alcuni ritratti, alla personale tenuta nel 1948 a Milano, presso la Galleria Barbaroux. Seguono le prime esperienze all’estero con la partecipazione alla Mostra di Scultura Italiana a Berna ed una personale alla Landau Gallery di Los Angeles. Assieme a Pietro Sudan e Toti Scialoja, intraprende quindi il suo primo viaggio a Parigi, rimanendo particolarmente colpito dalla plastica primitiva ammirata al Musée de l’homme, le cui influenze appaiono evidenti nella secca cesura dei tagli formali e nella solida costruttività delle opere realizzate nel periodo immediatamente successivo al viaggio. Ha inoltre avvio in questi anni la serie de Gli Amanti, tema che permarrà tra i più trattati fino alla metà degli anni ’60 e che appare caratterizzato dalla poetica della compenetrazione dei volumi nel motivo dell’abbraccio-fusione. Nel 1951 è invitato alla I Biennale Internazionale d’Arte di San Paolo del Brasile ed allestisce una personale alla parigina Galleria Fouburg St. Honorè. Nel 1953 si avvicendano altre due personali americane e l’importante partecipazione alla I Biennale Internazionale di Scultura tenuta a Carrara. A partire dal 1954 si infittisce la produzione di opere d’arte sacra e la partecipazione a mostre d’arte contemporanea a tema religioso. Alcune opere di questa produzione sono presenti nella sala personale riservata a Castelli in occasione della VII Quadriennale e nella grande rassegna Scultura italiana del XX secolo del 1957. In questi anni intensifica il suo rapporto con Afro e stringe amicizia con Capogrossi, con il quale avvierà un sodalizio che avrà il suo acme negli anni ’70. Verso il 1962 ha inizio una nuova fase linguistica, di chiara impronta giacomittiana, definita da una netta perdita di spessore e uno spiccato sviluppo in verticale, quasi un’anticamera del periodo più prettamente informale che caratterizzerà gli anni a seguire. Nel 1964 la XXXII edizione della Biennale di Venezia, gli riserva un’intera sala. L’artista realizza per questa occasione una serie di opere plasmate direttamente in cera e poi realizzate in bronzo, spingendosi verso il disfacimento totale della figura umana e il suo rappresentarsi in forma di tormentati conglomerati materici. Nelle cinque opere in gesso patinato esposte in occasione della IX Quadriennale scompaiono anche le vaghe sembianze antropomorfiche e ad imporsi è l’impianto architettonico di squadrati blocchi rettangolari frammentatamente composti. Da questo momento si avverte un volontario allontanamento, eccetto pochi episodi, dal circuito espositivo; l’obiettivo è ora dirottato con successo ai concorsi pubblici per opere d’arredo architettonico e urbano. In questo periodo e per tutto il decennio successivo Castelli concentra inoltre la propria produzione sul tema della sfera; con il passar del tempo non sarà più la sintesi raggiunta con la sfericità ad essere motivo di elaborazione ma la movimentata strutturazione plastica che essa può contenere e alla quale attivamente partecipa. Alla fine degli anni ’70 l’elezione a modulo di base passa dalla sfera al parallelepipedo e dunque dalla rotondità della curva alla solidità della retta. Da questo momento le sue opere porteranno tutte il titolo di Modulazioni, seguito da un numero progressivo. Permangono però l’architettonicità e il rigoroso ordine geometrico delle strutturazioni volumetriche, come pure l’articolazione di piani e blocchi nei quali trova ancora configurazione, la poetica delle compenetrazioni, vero leitmotiv della plastica castelliniana. Ormai da quarant’anni dedito all’insegnamento, continua, del tutto controcorrente, l’auto-isolamento dalle maggiori rassegne d’arte, decisione che man mano assume il valore di denuncia dell’artificiosità e sovrastrutturalità del sistema dell’arte. Tale lontananza si interrompe con la personale tenuta all’Aja e la partecipazione alla XI Quadriennale nel 1986. Alla fine degli anni ’80 la corposa volumetria dei blocchi quadrangolari tende a ridursi e la sintesi icastica delle forme a frammentarsi e sfilacciarsi, torna inoltre rinnovato, dopo anni di concentrazione sul granito nero del Belgio, l’interesse per il bronzo. Nella produzione degli ultimi tre anni di attività le due radici della plastica castelliana (l’astratto e il figurativo, la compenetrazione di volumi e l’immagine umana) trovano un pacifico equilibrio, tanto formale quanto semantico. Nel 1992, dopo aver vinto il Premio speciale della Presidenza della Repubblica, Castelli muore a Roma all’età di 75 anni.