Il dipinto intitolato Apollo e Dafne è per il suo stile prossimo alla scuola del noto pittore Claudio Francesco Beaumont, esponente di rilievo del gusto rococò diffuso in Piemonte nel corso del XVIII secolo.
L’episodio di Apollo e Dafne, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (I, 452-567), incontrò grande favore in epoca rinascimentale per la sua valenza moralistica, ovvero denunciare il carattere vano e fugace del piacere.
Celebre è il caso dello splendido gruppo di Gian Lorenzo Bernini conservato alla Galleria Borghese sul cui basamento venne affiancato ai versi ovidiani un distico di Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII.
Ambientata in un ambiente fluviale, la scena presenta Dafne, la bella ninfa che aveva fatto voto di castità, inseguita da Apollo invaghitosi di lei per effetto di una freccia scagliata da Cupido; pur di non cedere alla passione amorosa non corrisposta, la fanciulla chiede di essere trasformata in alloro ed esaudita dal padre, il fiume Peneo, si tramuta in alloro, da quel momento pianta sacra al dio Apollo.
In primo piano, colto in un atteggiamento cupo e dismesso, è raffigurato il dio Peneo nella consueta formula iconografica che lo ritrae a terra, con in testa una corona di erbe palustri; accanto siede un’altra divinità fluviale dall’aspetto più giovane, forse il suo affluente Apidano, che tiene in mano un remo e poggia su un’anfora rovesciata.
Il dipinto manca dell’intensità emotiva insita nella figura di Dafne e i due giovani sembrano intenti in un grazioso balletto più che in un inseguimento. Apollo, seppur memore del modello berniniano nella presa della fanciulla, manca di uno slancio reale ed energico, mentre Dafne sembra arrendersi alla sorte con le braccia ricoperte di foglie e levate al cielo.