Ferruccio Ferrazzi nasce nel 1891 e muore nel 1978 a Roma. Formatosi da piccolo presso la bottega del padre Stanislao, scultore e copista di quadri, nel 1904 frequenta lo studio di Francesco Bergamini e nell’anno seguente la Scuola libera del nudo a Via Ripetta e i corsi serali all’Accademia di Francia. Il suo linguaggio, prima influenzato dall’opera di Segantini, come evidente in Focolare, del 1911, matura a contatto con la pittura di Cézanne, con l’espressionismo tedesco e con il futurismo, linguaggi conosciuti durante viaggi a Parigi nel 1914, in Svizzera nel 1916-17 e nel nord Italia (nel 1919 partecipa alla Grande Esposizione Nazionale Futurista). L’artista elabora un modo di frammentare e compenetrare i volumi detto “visione prismatica” dal prisma che permette la scomposizione dei piani e che ricorre nei suoi dipinti, attraversati da fasci di luci e di ombre (Idolo del prisma, 1925). Il passaggio dalla fase di più intensa drammaticità al clima di ritorno all’ordine è accompagnato da ricerche orientate al recupero di tecniche artistiche tradizionali e all’integrazione di queste ultime con l’architettura, che gli valgono la cattedra di decorazione pittorica all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1929, nonché commissioni di opere monumentali, tra cui gli affreschi e i mosaici per il Mausoleo Ottolenghi ad Acqui Terme (1925-1961), i sette arazzi per il palazzo del Ministero delle Corporazioni (1932), i cartoni per il mosaico Il Mito di Roma in Piazza Augusto Imperatore (1940), i due grandi encausti La scuola e L’aurora per la Sala Galilei nell’Ateneo di Padova (1942). I grandi del passato come Giotto, Piero della Francesca e Tintoretto sono i punti di riferimento che egli elabora in chiave narrativa, anti-retorica ed intimista: accanto alle grandi opere realizza inoltre numerosi ritratti di amici e parenti, che dichiarano l’importanza dell’ambito familiare quale materia prima della sua arte, sia prima che dopo il matrimonio con Horitia Randone nel 1922 (I caratteri della famiglia, prima versione 1918, seconda versione 1922; Horitia e Fabiola, 1926).
La partecipazione alle maggiori rassegne d’arte contemporanea dell’epoca gli permette inoltre di far conoscere la sua opera a livello internazionale e nel 1926 viene insignito del Premio Carnegie a Pittsburgh.