Nato a Lucca nel 1917, Fabio Failla vanta nel suo albero genealogico avi illustri come Massimo D’Azeglio, Alessandro Manzoni e il grande scienziato e padre missionario Padre Matteo Ricci. Trasferitosi a Firenze fino al 1939, frequenta lo studio del pittore Gianni Vagnetti e inizia a partecipare a diverse mostre nazionali. Durante la guerra, presta servizio militare come ufficiale degli alpini fino al settembre 1943 stringendo amicizia con lo scrittore Curzio Malaparte. Fuggito dalle prigioni tedesche si rifugia nelle Marche, a Pollenza, nella casa materna, dove riprende a dipingere.
Dopo la sua prima personale nella Pinacoteca Comunale di Macerata (1945), si trasferisce a Roma, città nella quale si fa conoscere con una personale alla Galleria Chiurazzi (1948). Entrato nel circuito delle principali mostre nazionali: XXV Biennale di Venezia, VI, VII, VIII e IX Quadriennale di Roma, ottiene diversi riconoscimenti e continua ad esporre anche all’estero: partecipa a mostre di pittori italiani a Winnipeg, Ginevra, Liegi, Bruxelles, Hollywood, New York.
Le sue opere sono caratterizzate dalla densità delle linee, dal rigoglio cromatico delle vegetazioni, dall’evidenza plastica degli oggetti. I soggetti preferiti nei suoi quadri sono soprattutto nature morte e paesaggi (Venezia e Roma le città più amate) dove Failla lascia trasparire un senso di solitudine e profondità.
Failla scopre nella Città eterna la sua musa, la sua principale fonte d’ispirazione. Osserva attentamente la natura e soprattutto il panorama romano, quegli scorci architettonici (mura antiche, palazzi, chiese, passeggiate, colonnati), filtrati e reinventati da angolazioni prospettiche desuete, e per questo sempre nuove e originali, permeate da un’atmosfera metafisica e lirica insieme.
La ricchezza coloristica fatta di contrasti, il singolare ampliarsi degli spazi, corrispondono ad un lirismo controllato ma disteso. Ogni soggetto, immagine (gli obelischi, gli scorci romani, le candide case andaluse, i tetti di Pollenza, le mura di Osimo o le visioni lagunari) s’imbeve di luce e di colore, in una composizione sapientemente scandita dalle masse in equilibrio. La natura appare trasfigurata dalla visione evocativa che è incanto poetico, ricondotto sempre ad una serena estasi.
La luce (simbolo di vita e candore) è l’elemento unificante della composizione è l’anello di congiunzione che salda la visione oggettiva della realtà, con effetti luminosi di singolare magia, che sembrano rifarsi a De Chirico.
Nei suoi dipinti trovano spazio alcune piccole figure, espressioni di un mondo in crisi esistenziale. Si susseguono in diversi quadri pretini neri e rossi, monachelle svolazzanti, coppiette d’innamorati, venditori di palloncini colorati. ‘Sono i simboli di una speranza di fede contro il dilagante materialismo che sta distruggendo ogni forma di vita e sentimento’ spiega l’artista stesso.
Nelle vedute di Venezia si trovano le stesse immagini sospese in equilibrio tra l’evocazione nostalgica e il sentimento pieno della realtà. Sono frammenti di paesaggi lagunari che rappresentano una Venezia piena di solitudine, una città incantata, dove si respira un’atmosfera surreale del paesaggio.
I fiori, veri capolavori di grazia e raffinatezza, si lasciano permeare di una certa lirica e musicalità. In essi si fondono ansie e sentimenti, speranze e rimpianti, amori e delusioni, creature quasi viventi che parlano della loro intima essenza, del loro significato.