Le parole ritratto e portrait derivano entrambe dal latino: re-traho e pro-traho, due verbi che indicano parimenti l’azione del tirar fuori. Ritrarre significa dunque in prima analisi recuperare un’immagine della realtà e costituisce uno dei momenti più evidenti in cui l’arte si confronta direttamente con la natura.
Senza dubbio tra i più antichi generi artistici, il ritratto nasce dal desiderio di contrastare la caducità della vita attraverso la memoria dei volti o l’evocazione di valori e virtù che si vogliono impressi nell’immagine. Tale ricerca attraversa i millenni ed i continenti: dalle remote mummie di Gerico e i ritratti del Fayoum fino ai volti scomposti di Picasso, i colli allungati di Modigliani ed i numerosi ritratti dei nostri giorni.
Inizialmente vincolato ad una funzione puramente descrittiva, con il tempo il ritratto è portato ad esprimere anche l’interiorità del soggetto: “Farai la figura in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile” ammoniva Leonardo.
Nel corso dei secoli si trasformano esigenze, obiettivi e condizioni: il ritratto assume, con alterna fortuna, caratteristiche sempre nuove, facendo ricorso a tecniche e stili anche molto lontani tra loro. Ciò che rimane costante è però la capacità di offrire dietro l’immagine del soggetto l’interpretazione di un’intera epoca, del gusto corrente e della sua società.
Tale caratteristica è evidente anche nell’eterogeneo e contenuto nucleo di ritratti di proprietà dell’INPS. Tra questi spiccano per fama quelli di Andrea Sacchi e Carlo Maratta. I due dipinti ci riportano nella Roma secentesca, in quella Roma ricca e potente, governata da prestigiose famiglie aristocratiche. Presso queste ultime lavoravano i più celebri artisti del tempo impegnati a decorare le ricche dimore e tramandare le effigi di potere dei propri committenti. I ritratti dovevano pertanto celebrare le posizioni sociali assunte dagli effigiati, sottolineandone i simboli del potere. Nei due dipinti citati, Antonio e Taddeo Barberini sono infatti ritratti a figura intera l’uno vestito degli abiti cardinalizi, l’altro delle vesti prefettizie. Minor enfasi ma eguali propositi si riscontrano nei ritratti di Stefano Colonna e Francesco III Colonna, eseguiti rispettivamente da Jacob Ferdinand Voet ed un seguace di Frans Pourbus il Giovane. L’ambiente ed il periodo di esecuzione sono i medesimi, ma queste due tele rispondono a stilemi ben diversi. I due autori si inseriscono infatti nella solida e lunga tradizione ritrattista della scuola fiamminga, caratterizzata da una formula ieratica e severa e da un particolarismo descrittivo che porta in molti casi a risultati di non comune veridicità.
A tutt’altro contesto ci riportano infine i novecenteschi ritratti di Purificato e Attardi. I soggetti sono tratti dal popolo, le pose e gli atteggiamenti sono quanto di più lontano dai gravi e nobili ritratti barocchi. Attardi e Purificato del resto non dipingono per commissione di ricchi signori ma spinti da un forte impegno civile: dietro ai volti del minatore e dei contadini si esplicita infatti una decisa denuncia sociale.
Sono i volti umani del resto ad aver ispirato nei secoli artisti di ogni tempo e luogo e non è sbagliato credere che nell’innumerevole ed eterogenea serie di ritratti che la storia ha conservato il soggetto in fondo sia sempre lo stesso: il dialogo tra noi e gli effigiati, tra il nostro sguardo e quello di chi ormai è nella storia.